New York, primi anni 2000.
Nei bagni di una prestigiosa scuola religiosa c’è una ragazza che piange. Si lava e si pulisce meglio che può, ma si sente ancora addosso quell’odore disgustoso: le compagne l’hanno buttata in un bidone della spazzatura.
Trovano divertente umiliarla in continuazione. Si guarda nello specchio del bagno e si chiede cosa ci sia di sbagliato in lei. “Tutto”, si risponde odiandosi: è grassottella, eccentrica e ha interessi e passioni differenti da tutte le sue compagne.
Ha ottimi voti ed è molto studiosa e disciplinata, ma ora basta, questa ennesima aggressione è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: vuole abbandonare la scuola.
Londra, 1998.
In un letto di ospedale c’è un ragazzo di ventun anni che si sente come se si fosse spezzato in due. Non è soltanto il dolore lancinante in tutta la schiena, sono anche e soprattutto le parole dei medici: gli hanno detto che probabilmente non potrà mai più camminare.
Credeva di essere all’inizio di una vita meravigliosa, ma ora è paralizzato e darebbe tutto ciò che ha per tornare indietro e non commettere l’imprudenza di arrampicarsi sul tetto da cui è caduto.
Edimburgo, metà anni ‘90.
In un piccolo e scarno appartamento c’è una donna sui trent’anni che vede tutto nero.
E’ divorziata, è senza lavoro e se non fosse per i sussidi statali non riuscirebbe nemmeno a nutrire la sua bambina.
Oggi ha ricevuto una telefonata che aspettava col cuore in tumulto: non era soltanto un’importante opportunità professionale, era il suo sogno più grande. Ma ha risposto al telefono solo per sentirsi dire “no” per la dodicesima volta: non vede via d’uscita.
Ho raccontato brevemente di tre persone che hanno sperimentato tutta la propria fragilità, che si sono sentite delle nullità, che hanno creduto di aver sbagliato tutto, perso tutto e di non poter mai più essere felici. Tre persone che avevano qualcosa che faceva brillare i loro occhi quando lo facevano o quando anche solo ne parlavano, ma erano convinte che di tutti i loro progetti non avrebbero realizzato nulla.
I loro nomi erano Joanne Rowling, Orlando Bloom e Stefani Germanotta, meglio nota però come Lady Gaga. Sui loro meriti e successi non è compito mio dilungarmi: si presentano da soli a chiunque non abbia vissuto da solo sulla cima di una montagna del Tibet negli ultimi dieci o vent’anni, ed anche per loro, se stanno leggendo questo articolo, Wikipedia è a disposizione.
Non è mia intenzione scrivere l’ennesimo predicozzo pseudo-motivazionale sulla moderna parabola dell’eroe che dal nulla si è creato un impero di fama e ricchezza. Sappiamo bene, del resto, che il successo non coincide con la felicità.
Per nostra fortuna, c’è di buono che per essere felici non bisogna per forza vincere un Oscar e nove Grammy, o essere nominati l’attore più bello di Hollywood, o essere l’autrice del libro più venduto nella storia dell’editoria.
No, se ho attirato l’attenzione di chi legge raccontando queste tre storie l’ho fatto per mostrare che tutti, ma proprio tutti, attraversiamo nella vita dei momenti in cui ci sentiamo paralizzati, o come se fossimo finiti in un bidone della spazzatura, o in cui crediamo che la nostra vita sia un totale fallimento: momenti di dolore che ci sembrano insuperabili fintanto che ci siamo dentro.
Siamo ricoperti da così tanta neve, l’inverno è così rigido e così lungo, che ci dimentichiamo di essere ulivi, esseri viventi che non perdono mai le foglie, e sanno conservare il sole dentro di sé per dare i loro preziosi frutti. Non li donano però durante la bella stagione come tanti altri, ma proprio quando si avvicina il freddo.
Qualunque sia il dolore, è una fase, è soltanto una fase, un passaggio da attraversare, e anche se fatichiamo a crederlo non durerà per sempre: finirà, o meglio si trasformerà.
Questo non significa, ovviamente, che basti stare fermi ad aspettare che magicamente la fortuna torni a sorriderci: interminabile come un esercizio al pianoforte, faticoso come una seduta di fisioterapia, esasperante come l’ennesima revisione di uno scritto sarà il lavoro interiore ed esteriore che scioglie la neve e scalda lentamente i frutti acerbi.
E tutto quel dolore non sarà stato invano, anzi. Così come i tre artisti di prima hanno tratto anche dai loro momenti bui la loro intensità espressiva, attraversare la sofferenza ci rende più completi, più veri e più vivi.
Dopo essere stati toccati dal dolore ci ritroviamo più ricchi di risorse interiori, di cui forse non ci accorgiamo nemmeno, ma che ci rendono anche persone potenzialmente più empatiche, più vicine agli altri, più pronte a comprenderli e a curarcene (non a caso ho scelto tre artisti noti anche per il loro impegno sociale).
Tutto questo perché per quanto grande possa essere l’evento che ci colpisce, non è tanto ciò che ci accade a definirci, ma come lo viviamo, cosa ce ne facciamo, che posto gli diamo nella nostra vita, in cosa lo trasformiamo.
Mi scalda il cuore pensare che una ragazzina umiliata per anni a scuola ora gira il mondo in tournée di concerti e dirige una fondazione a sostegno delle vittime di bullismo, o che un ragazzo che credeva di aver perso l’uso delle gambe ha poi combattuto le battaglie di tanti eroi fantastici, o che una donna rimasta ai margini della società e della vita ora è più ricca della regina Elisabetta d’Inghilterra solo grazie alla sua sfrenata immaginazione e creatività.
Ciò che mi scalda il cuore ancora di più, però, è pensare a tutti gli ulivi silenziosi intorno a me, che nessuno applaude mentre si scrollano la neve di dosso, tornano a far splendere il verde argenteo delle loro foglie al primo timido sole e si preparano a un nuovo ciclo della vita. Tanti, tantissimi ulivi che nessuno premia, ma che innalzano ogni singolo giorno i loro piccoli fiori bianchi come una corona di vittoria e dignità, felici della propria silenziosa rinascita.