I – IL SERPENTE SUL MIO CAMMINO – DEFINIRE LE ESPERIENZE TRAUMATICHE

IL SERPENTE SUL MIO CAMMINO – DEFINIRE LE ESPERIENZE TRAUMATICHE

La parola “trauma” è tra i tanti termini psicologici che si sentono sempre più spesso, così spesso che a volte finiscono per perdere il loro significato originario e venire banalizzati, fino a far diventare “traumatico” il suono della sveglia lunedì mattina.

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Per nostra fortuna, non tutte le esperienze negative che viviamo si trasformano in un trauma, e non tutte le esperienze dolorose producono in ognuno di noi gli stessi devastanti effetti.

D’altro canto, non è l’entità apparente di un evento a qualificarlo o meno come un trauma: non c’è bisogno di un danno di gravità eclatante affinché chi lo subisce possa o debba sentirsi “autorizzato” a restarne traumatizzato.

Si può uscire più forti e consapevoli da un incidente d’auto che ci ha fatto sfiorare la morte, o cadere in una profonda depressione post-traumatica per la morte di un animale domestico.

A qualificare un trauma non è l’esperienza in sé, ma le modalità con cui viene vissuta, condivisa (o taciuta), rappresentata nella mente.

Così, se etimologicamente la parola trauma rimanda a un “colpo” (infatti conserva questo significato in ambito medico), nella nostra psiche il trauma è qualcosa che rompe le nostre certezze fondamentali, comporta la perdita di una parte essenziale di noi stessi, mette in discussione la nostra sopravvivenza, non solo fisica ma anche e soprattutto emotiva, non rientra in nessuna categoria di ciò che siamo preparati ad affrontare, è impensabile, innominabile, non digeribile dalla nostra mente e dal nostro corpo.

Subiamo un trauma quando ci sentiamo completamente impotenti di fronte a un dolore o ad un pericolo: l’impossibilità di fare qualcosa per prendere il controllo della situazione è l’essenza del trauma.

E’ per questo che i bambini corrono un maggiore rischio di essere traumatizzati e i traumi subiti in età infantile hanno spesso conseguenze più gravi, perché il bambino è effettivamente più inerme, più dipendente e più vulnerabile di un adulto.

Sentirsi impotenti di fronte ad una situazione, in particolare di fronte a una sofferenza o ad un’ingiustizia, è così intollerabile, che pur di riprendere una minima forma di controllo e di potere, un bambino (ma anche un adulto) può arrivare a convincersi di aver “meritato” di subirla, che sia “colpa sua”, che ci sia qualcosa che non va in lui o lei, anche se chiunque dall’esterno potrebbe giurare che non è così.

Ma cosa succede quando chi infligge il dolore e chi dovrebbe proteggere la vittima sono la stessa persona? Si crea un cortocircuito, una spirale dove si vede solo sofferenza in qualunque direzione si guardi, una situazione di costante pericolo per la sopravvivenza psichica della vittima.

Quando chi infligge il trauma è una persona amata dalla vittima e molto importante per lei, come ad esempio un genitore nei confronti di un bambino o un adolescente, il maltrattamento psicologico può fare danni molto più grandi di quelli che possono apparire.

Se fai così non ti voglio più bene”, “Se ami la mamma non dovrai mai lasciarla”, “Devi scegliere tra me e papà”, “Devi fare ciò che voglio io perché ti ho cresciuto” “Se mi ami non dovrai mai più parlare di ciò che è successo”, “Solo io so cosa è meglio per te”, “Se mi vuoi bene devi mangiarlo tutto”: questi ed altri messaggi trasmessi non necessariamente con le parole, ma anche con i gesti e gli atteggiamenti di tutti i giorni, sono ricatti che pongono il bambino o il ragazzo in un vicolo cieco, dove non esistono punti di riferimento o soluzioni praticabili.

Come è evidente, non si tratta necessariamente di quel tipo di maltrattamenti cruenti che, per intenderci, hanno subito da piccoli i serial killer dei film horror americani. La pervasività di un sottile ricatto all’interno della relazione più significativa per il bambino è come gocce d’acqua in grado di scavare la roccia.

La salvaguardia della relazione assume la priorità, costringendolo ad annullare se stesso e il proprio sentire: un bambino che impara a fare questo come unica strategia di sopravvivenza, rischia di diventare un adulto privo della capacità di occuparsi di se stesso in modo indipendente, soddisfacente e adeguato, ed eventualmente di proteggersi dai pericoli e affrontare le avversità.

A rendere un evento “impensabile”, non collocabile nella nostra narrativa personale, non digeribile dalla psiche, come se avessimo ingoiato un sasso, è anche l’impossibilità di condividere l’esperienza con una persona significativa, e di vederla riconosciuta.

Così, una ragazzina che esita a rivelare le attenzioni sessuali subite dal patrigno per paura di non essere creduta o di essere incolpata, o le Madres de Plaza de Mayo argentine che da più di 40 anni chiedono giustizia per i loro figli scomparsi e denunciano le colpe mai ammesse di un regime dittatoriale, rappresentano due facce della stessa medaglia: il bisogno di vedere il proprio dolore rispecchiato, reale, validato, riconosciuto, creduto, compreso. La ricerca di un senso condiviso per quanto è accaduto, anche e soprattutto dove un senso è più difficile da trovare.

A proposito del noto movimento di attivismo che ho appena citato, un discorso a parte meriterebbe il trauma collettivo, quello legato a guerre, dittature, genocidi, disastri naturali ed altri eventi storici, che oltrepassa i confini di un solo individuo o di una sola famiglia per accomunare intere comunità locali, a volte interi popoli o nazioni. Questo tema esula dal presente articolo, ma vorrei approfondirlo in futuro.

Qualunque sia l’esperienza traumatica, comunque, il suo ricordo viene registrato in uno strato estremamente profondo e primitivo del nostro cervello, l’amigdala, che è progettata per farci reagire istantaneamente a qualsiasi situazione potenzialmente pericolosa, senza “perdere tempo” a ragionare e valutare le possibili reazioni, senza cioè coinvolgere gli strati più evoluti e razionali del nostro cervello: tutto ciò con il solo scopo di farci sopravvivere.

Se camminando su un sentiero di campagna vediamo un serpente, prima facciamo un salto all’indietro, poi eventualmente abbiamo il tempo di guardarlo meglio e renderci conto che era solo un ramo secco ritorto: questo meccanismo istintivo ha probabilmente impedito che il genere umano si estinguesse durante la preistoria, ed è rimasto inalterato attraverso ogni cambiamento che ha rivoluzionato il mondo nelle ultime decine di migliaia di anni.

Anche se per noi europei del 2019 il rischio di morire per il morso di un serpente è trascurabile, questo pericolo è profondamente inscritto nel nostro inconscio collettivo, e si attiva di fronte a tutto ciò che ce lo ricorda.

Il trauma funziona proprio così: ci farà reagire con un istinto di paura, fuga e ritiro di fronte a qualsiasi situazione ci ricordi quella originaria, con la sola priorità di salvare la nostra incolumità.

L’amigdala di una donna che ha subito uno stupro non “sa” che ora l’uomo che la sta accarezzando è un marito amorevole: porta inciso il ricordo di quello sconosciuto violento, e tenterà di farla reagire come reagì allora anche se sono passati molti anni, impedendole di avere una vita sessuale serena, se nel frattempo non è avvenuto un intenso lavoro di integrazione dell’esperienza.

L’amigdala di un uomo che da bambino è stato costantemente maltrattato da un genitore che lo picchiava e urlava contro di lui, non “sa” che il suo datore di lavoro e la questione professionale di cui stanno discutendo non hanno per la sua sopravvivenza la stessa importanza che avevano i suoi genitori quando aveva quattro anni. La sua reazione emotiva profonda di fronte ad una figura di autorità aggressiva sarà la stessa, e potrà portarlo ad assumere un atteggiamento troppo remissivo, accettando una tale mole di lavoro da compromettere la propria salute e la propria vita famigliare.

Il trauma, però, non è per forza una spirale senza fine e senza via d’uscita.

La sofferenza farà inevitabilmente parte di un’esperienza negativa, ma il trauma no.

Una volta che un’esperienza si è fissata come trauma negli strati più profondi della mente, il danno non è irreparabile.

Non possediamo soltanto le parti più primitive ed istintuali del nostro cervello, ma abbiamo evoluto un organo pensante dalle potenzialità così incredibili da apparire miracolose, e a volte inspiegabili. Non sappiamo soltanto reagire agli stimoli, sappiamo anche pensare, immaginare, comunicare, interrogarci, narrare, cercare e creare senso e significato per la nostra esperienza.

Nei prossimi articoli vorrei approfondire alcuni modi per prevenire o superare un trauma.

BIBLIOGRAFIA:

– Cesare Albasi – Attaccamenti traumatici – UTET, 2006

– Danie Beaulieu – Eye Movement Integration Therapy – Crown House publishing, 2012

II – MA COME FANNO LE OSTRICHE? – SUPERARE LE ESPERIENZE TRAUMATICHE

Come abbiamo visto nel precedente articolo, per superare un trauma abbiamo bisogno innanzitutto di dare parola a questa esperienza, di vederla riconosciuta da qualcun altro.

Abbiamo anche bisogno di integrare l’esperienza all’interno del più ampio tessuto della nostra psiche, che comprende anche esperienze di sicurezza, positività, benessere, padronanza e relazione sana.

Il lavoro che dobbiamo fare è simile a ciò che fa l’ostrica quando viene invasa da un sassolino: non potendo espellerlo, lo circonda con qualcosa di buono e forte che proviene da se stessa, ci lavora intorno fino a renderlo tondo e liscio in modo che possa restare dentro di lei senza farle male, ottenendo come risultato qualcosa di prezioso e unico, una perla.

Non a caso, forse, secondo le formalità del galateo le perle sono l’unico tipo di gioiello “consentito” durante il periodo del lutto: nella loro bellezza evocano un’immagine di tristezza, di fatica, ma anche di grande forza e resistenza alle avversità.

Viviamo qualche tipo di esperienza negativa o difficile, ci troviamo qualche “sassolino nella scarpa” pressoché ogni giorno: talvolta neppure ci accorgiamo di quanto lavoro da ostriche la nostra psiche compia, e di quante perle vi siano dentro di noi grazie al fatto che riusciamo ad affrontare le avversità della vita.

Purtroppo però, di fronte ad un’esperienza traumatica, spesso anche le naturali forze equilibratrici e guaritrici che vivono all’interno della psiche possono non essere sufficienti, un po’ come gli anticorpi di fronte ad un agente patogeno così forte da farci ammalare.

Ecco allora che si presentano incubi, risvegli notturni terrificanti, difficoltà del sonno, ricordi intrusivi e flashback che riportano al momento più angosciante. Le attività quotidiane e le interazioni personali appaiono piene di pericoli, perché innumerevoli stimoli ricordano l’esperienza traumatica e provocano reazioni incontrollabili di paura, di ritiro o di rabbia. Si rischia allora di sviluppare una tendenza ad evitare attività, luoghi, persone e situazioni per non incontrare quei ricordi. In questo modo la vita di una persona va incontro ad un generale impoverimento, si perde anche lo slancio verso il futuro, e si sente crescere un senso di perdita, inutilità, svuotamento e tristezza che può diventare una vera e propria depressione. Ed in tutto questo, a volte sembra che gli altri non capiscano le nostre difficoltà, i nostri bisogni e le limitazioni che il trauma comporta.

La saggezza popolare dice che il tempo guarisce ogni ferita: almeno in parte, fortunatamente, questo è vero. Ma a quale prezzo?

Per quanto tempo dovremo rinunciare al nostro lavoro per la paura invincibile di salire in auto dopo un incidente stradale?

Quante possibili storie d’amore non inizieranno mai perché le percosse e le umiliazioni di chi diceva di “amarci troppo” hanno tramortito in noi il coraggio di affidarci all’altro?

Quante nuove esperienze ci negheremo a causa di una paura che appare insensata ai nostri stessi occhi?

Nessuno di noi merita tutto questo.

Non siamo costretti a restare raggomitolati immobili nell’attesa che la tempesta passi.

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Ecco allora che può entrare in gioco l’aiuto della psicoterapia: se come abbiamo visto, per il superamento di un trauma è essenziale dare voce all’esperienza ed elaborarla, un percorso con uno psicologo può essere un importante aiuto.

Un percorso psicoterapeutico, però, richiede spesso tempi lunghi. Un dolore che si trascina da tempo, magari da anni, può rendere meno pronti ad accettare di partire per un lungo viaggio, per quanto desiderata sia la meta del benessere da ritrovare.

Le energie necessarie a compiere questo percorso sono bloccate, cooptate dagli ingenti investimenti in “armamenti da difesa” che il trauma ha reso necessari alla sopravvivenza. Come si può allora liberarle affinché siano di nuovo a nostra disposizione?

Esiste una tecnica di intervento molto rapida e intensa, la EMI, che sta per Eye Movement Integration, Integrazione attraverso i movimenti oculari.

Presenta similitudini e differenze rispetto alla EMDR, più nota in Italia. In particolare, la EMI consente una maggiore flessibilità, rendendola meglio applicabile a una più ampia varietà di situazioni.

In poche sedute di trattamento, indicativamente da una a meno di dieci a seconda dei casi, la EMI consente di modificare il ruolo che l’esperienza traumatica ha nella vita e nella psiche del paziente, in modi concreti e sostanziali, che portano a percepire nel giro di alcune settimane un evidente maggiore benessere.

L’esperienza traumatica non verrà dimenticata, né saranno eliminate le emozioni sane e appropriate ad essa associate: non si tratta, ad esempio, di portare una persona ad amare il partner o il genitore che le ha fatto violenza, oppure a diventare spavalda di fronte a tutto, perdendo quelle paure adeguate ad una ragionevole protezione di sé.

Ciò da cui il paziente si libera sono le limitazioni, i condizionamenti e le percezioni auto-distruttive legate al trauma, come fobie, aspetti depressivi, senso di colpa, vergogna e comportamenti evitanti che ostacolano la sua vita e la sua progettualità.

Volendo metaforicamente immaginare il trauma come un numero 3 inscritto nelle mente e nel corpo, la EMI non può cancellarlo dalla memoria, ma può aggiungerci qualcosa: il 3 si trasforma in un 8, cambiando completamente significato e posto nell’ordine delle cose.

Il ricordo dell’esperienza traumatica apparirà allora meno carico emotivamente, meno disturbante, più gestibile e collocabile, e le sue conseguenze meno imponenti, come un bagaglio dapprima ingombrante che andrà occupando sempre meno spazio, fino a non costituire più un peso così gravoso da affaticare o rallentare il cammino.

La EMI, come qualsiasi altra tecnica, non è la panacea per tutti i mali, un trucchetto quasi magico o paranormale che fa sparire ogni problema, una pillola alla Matrix: non fa che ri-attivare e potenziare quelle forze interiori che tutti possediamo, e che naturalmente ci guidano verso l’equilibrio, il benessere, la spontaneità e la creatività.

Molto spesso, il trattamento EMI è solo l’inizio oppure un passaggio intermedio di un percorso più ampio che comprende una psicoterapia, esattamente come alla guarigione da una malattia che ha a lungo impedito al paziente di camminare deve seguire una paziente riabilitazione fisioterapica.

La EMI libera energie, risorse psichiche, desiderio, che restano così a disposizione della nostra vita, delle nostre relazioni e dei nostri progetti: scegliere cosa farne, sarà una nuova storia.

Una considerazione finale che esula un po’ dalla tematica psicologica, ma mi sembra doveroso fare. Non siamo ostriche: ci sono sassolini provenienti dal passato che non possiamo più espellere dalla nostra memoria, ma ci sono sassolini del presente che possiamo estromettere dalla nostra vita e sassolini del futuro da cui possiamo evitare di farci invadere.

Se la fonte del nostro dolore è nella situazione attuale, non siamo tenuti ad adattarci, ma possiamo cambiarla, sia essa una relazione sentimentale, un posto di lavoro, un’abitudine, una convinzione o uno stile di vita.

Allo stesso modo, le nuove consapevolezze maturate grazie al percorso EMI possono aiutarci a prendere per il futuro decisioni migliori, più autenticamente nostre, non condizionate dall’onda lunga dell’esperienza traumatica.

Anche per quanto riguarda i sassolini delle esperienze passate, non poterli espellere dal ricordo non significa che il cambiamento del loro posto nella nostra vita non possa essere così radicale da cercare, eventualmente e se lo sentiamo pertinente, riscatto e giustizia anche in termini legali. I reati contro la persona, tra cui l’abuso e il maltrattamento, non cadono mai in proscrizione. Molte persone sentono che una denuncia e un percorso giuridico possano essere utili e importanti per chiudere il cerchio rimasto spezzato: queste non dovrebbero mai lasciarsi scoraggiare, tanto meno dalla paura del giudizio degli altri.

III – CAVALCARE LA TIGRE – LA TECNICA E.M.I.

Sapevate che esiste una sostanza chimica corrosiva, altamente tossica, utilizzabile come arma di distruzione di massa, ma che allo stesso tempo si vende sotto vari nomi commerciali, è utilissima come disinfettante per la casa, il cibo e le attrezzature ospedaliere, rende pulita e limpida l’acqua delle piscine, e può perfino mantenere l’acqua del rubinetto sicura e potabile?

Si tratta sempre dell’ipoclorito di sodio variamente diluito in acqua: tutto dipende dal suo livello di concentrazione.

Quando è puro o altamente concentrato, può essere mortale; quando è introdotto in quantità piccolissima in enormi masse d’acqua, salva la vita di innumerevoli persone ogni giorno.

Perché vi parlo di questo?

Immaginate che l’esperienza più brutta e più terribile della vostra vita sia un bicchiere di candeggina, ovvero di ipoclorito di sodio concentrato, che dovete portare sempre con voi, stando attenti a non toccarla, perfino a non respirare troppo vicino ad essa, per evitare di farvi del male. Forse, per proteggervi, decidete allora di indossare sempre guanti di gomma, che allo stesso tempo vi impediscono di toccare anche tutto il resto, e una mascherina che non vi fa percepire alcun odore o profumo circostante, e rende meno chiare le vostre parole agli altri: il trauma vi sta impedendo di vivere la vita in modo pieno.

Col tempo, con il lavorio interiore e con la psicoterapia la diluite mano a mano: prima otterrete un disinfettante per le vostre ferite; poi, un’azzurra piscina in cui forse un giorno avrete il coraggio, le energie e la gioia di nuotare; infine, dispersa in innumerevoli litri d’acqua, potrete addirittura berla: forse sarà un po’ sgradevole al gusto, ma farà comunque parte di ciò che vi mantiene in vita ogni giorno.

La candeggina sarà sempre lì, non sparirà, ma il suo ruolo nella vostra vita sarà completamente ribaltato.

E’ più o meno così che funziona la tecnica EMI, ovvero l’integrazione attraverso i movimenti oculari.

La saggezza popolare dice che, quando ci si trova di fronte ad una impasse, “dormirci sopra” aiuta a superarla e a vedere le cose con maggiore chiarezza e in una diversa prospettiva: ed è vero.

Secondo la scienza, il sonno si suddivide in 5 fasi, diverse da un punto di vista neurologico e fisiologico. In tutte queste fasi, pur se in modi differenti, i nostri occhi dietro le palpebre chiuse si muovono, e il nostro cervello sperimenta immagini, sensazioni, suoni e altri stimoli provenienti dall’interno.

In particolare, durante una delle cinque fasi i movimenti sono piccoli, rapidi e parossistici (REM), mentre durante le altre quattro sono ampi, lenti e fluidi (SPEM).

La scienza non ha ancora compreso ogni dettaglio su come e perché tutto questo avvenga, ma è certo che i movimenti oculari nel sonno hanno un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle nuove informazioni ricevute durante il giorno, nella creazione di ricordi a lungo termine e nel mantenimento di un equilibrio mentale.

Tutti abbiamo sperimentato almeno una volta le difficoltà di concentrazione e di attenzione tipiche di quando non abbiamo dormito a sufficienza la notte precedente, ma persone mentalmente sane private totalmente del sonno come strumento di tortura sviluppano nel giro di circa una settimana sintomi del tutto simili a quelli di una psicosi grave, con allucinazioni, deliri ed eventualmente aggressività verso sé o gli altri.

D’altro canto, uno studio osservativo su persone schizofreniche evidenzia che hanno spesso difficoltà a effettuare da sveglie quegli stessi movimenti oculari lenti e fluidi caratteristici del sonno non-REM, seguendo un punto focale in movimento per tutto il campo visivo.

I movimenti oculari sono correlati alla qualità della nostra attività mentale anche durante lo stato di veglia.

L’aumento o la riduzione dei movimenti oculari potrebbe essere anche tra i fattori che rendono tali alcune attività considerate mentalmente rilassanti, come una passeggiata all’aperto o la pratica sportiva, o al contrario mentalmente stancanti, come il lavoro al computer o lo studio. Le stesse parole “svago” o “divertimento” richiamano l’idea dello sguardo che “vaga” o “verte”, si gira in “di-verse” direzioni.

E’ esperienza comune che una persona esausta o molto triste può avere uno sguardo “assente” e fisso.

Studi scientifici ormai classici dimostrano che il nostro sguardo tende mediamente a volgersi in specifiche direzioni a seconda del tipo di attività mentale che stiamo compiendo.

In definitiva, i movimenti oculari, e soprattutto quelli lenti e fluidi che abbracciano la totalità del nostro campo visivo, sono connaturati al buon funzionamento della nostra mente e della nostra memoria.

La tecnica EMI volge tutto ciò al servizio della cura.

Guidando lo sguardo del paziente nelle varie direzioni e zone del campo visivo secondo una serie di movimenti sistematici della mano, il terapeuta non fa che attivare e potenziare la naturale forza auto-guaritrice che ognuno di noi possiede.

Ad ogni movimento emergeranno nuovi elementi, associazioni, ricordi, pensieri ed emozioni, secondo una logica interiore, non diretta dal terapeuta, ma spontanea.

La rete associativa della memoria è unica in ognuno di noi, e lì sono contenuti sia il dolore che la strada verso il benessere.

animal-1852813_1920A volte emergeranno contenuti molto forti, sorprendenti o apparentemente scorrelati dal nodo problematico su cui si sta lavorando, ma tutto va accolto nel rispetto del sentire del paziente, che tra i due è chi in definitiva detiene realmente il controllo del processo.

La seduta comprende due aspetti, due momenti, due movimenti psichici: dapprima il nodo problematico o l’esperienza traumatica va rievocata in modo intenso, ma protetto e sicuro; poi, gradualmente, si va ad “attingere acqua” per “diluire la candeggina” e “rendere potabili” i diversi “bicchieri” in cui è contenuta l’esperienza: quello dei pensieri, quello delle emozioni, quello delle sensazioni corporee, quello dei ricordi per immagini, suoni, odori e così via.

La “candeggina” sta soprattutto negli strati più profondi e primitivi della mente, difficilmente raggiungibili con la sola terapia della parola; l’”acqua” sta soprattutto negli strati più evoluti, in grado di sviluppare una narrativa diversa, e nell’insieme di risorse emotive, esperienze protettive e aree della psiche dove vi è sicurezza e padronanza.

Alla fine della seduta, il paziente potrà percepire il problema o il ricordo in modo differente e meno doloroso di prima, ma come quando si lancia un sasso in uno stagno i cerchi continuano a propagarsi a lungo, nello stesso modo il processo di integrazione neurologica proseguirà nelle settimane seguenti, durante le quali si potrebbero sperimentare “scosse di assestamento” psicosomatiche, o potrebbero emergere nuovi elementi intensamente riparativi, sotto forma di immagini, sogni o pensieri.

Dopo una sessione di trattamento EMI potrebbe esserne necessaria un’altra, e altrettanto spesso il trattamento EMI può essere un elemento inserito in un percorso terapeutico più ampio.

La potenza, la rapidità e l’evidenza con cui la EMI apporta un miglioramento, però, è davvero sorprendente.

Flashback, incubi, pensieri intrusivi, fobie, sintomi psicosomatici e altri disturbi legati ad un’esperienza traumatica lasciano la loro presa sul paziente, finendo per scomparire.

Man mano che la persona sofferente recupera energie, tutti quei comportamenti di ritiro, evitamento e isolamento che aveva sviluppato per proteggersi non saranno più necessari, e potranno essere abbandonati in modo spontaneo e senza forzature.

La voglia di mordere la vita, di fare progetti e scelte, di stare con gli altri e di sentire una profonda connessione con la totalità di se stessi potrà essere tirata fuori dal nascondiglio in cui era stata protetta per tutto questo tempo.