I PREGIUDIZI CONTRO I MIGRANTI: COSA POSSONO DIRCI GLI ESPERIMENTI PIU’ CELEBRI DELLA PSICOLOGIA

Esiste una branca della psicologia, detta “psicologia sociale”, che nacque a metà del ‘900 con il dichiarato intento di rispondere a una domanda ben precisa: come è stato possibile che interi popoli siano arrivati ai livelli di crudeltà, distruttività e orrore inauditi della seconda guerra mondiale e dell’olocausto? Non a caso molti dei pionieri della psicologia sociale erano americani di origini ebraiche fuggiti da un’Europa che li aveva scelti come bersagli di una violenza tanto deliberatamente pianificata quanto inspiegabilmente arbitraria.

La psicologia sociale ci dà strumenti ancora oggi utili per capire cosa sono i pregiudizi e il razzismo, e perché spesso un’informazione corretta ed oggettiva è poco o per nulla utile a scardinarli, in quanto viene recepita solo da chi ha già la mente aperta e rifiutata da chi ne avrebbe più bisogno.

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– Categorizzazione

La mente umana tende naturalmente a classificare l’infinita complessità del mondo esterno in categorie, che rendono comprensibile la realtà, la semplificano e la rendono prevedibile. Raggruppiamo gli elementi simili tra loro in categorie e creiamo schemi intorno a ogni oggetto, situazione, persona o gruppo di persone. Questa non è di per sé una cosa negativa: se non facessimo così, la nostra vita sarebbe un faticosissimo e angosciante procedere a tentoni in una realtà totalmente imprevedibile e frammentata, dove dovremmo ricominciare ogni giorno da zero senza poter fare affidamento su alcun punto di riferimento.

Cosa succede però se le categorie e gli schemi che utilizziamo per raccapezzarci nel mondo non derivano dalla nostra esperienza personale o da fatti oggettivi, ma da un sentito dire fatto di idee preconcette e paure antiche che ci portiamo dietro da millenni?

Cosa succede se nello schema associato alla categoria di “africani” facciamo rientrare indebitamente le caratteristiche di “sporco”, “disonesto”, “criminale” o “malato” al di fuori di qualsiasi fondamento razionale?

La paura di ciò che è diverso e il bisogno di trovare un capro espiatorio ai problemi di una comunità sono tendenze connaturate all’umanità fin dalla notte dei tempi, sono il rovescio della medaglia della necessaria tendenza a schematizzare il mondo.

– Dissonanza cognitiva

Già negli anni ‘50 del ‘900 Festinger giunse a formulare e convalidare tramite una serie di esperimenti una lucida analisi del funzionamento razionale della mente umana, riassumibile così: per evitare appunto la “dissonanza cognitiva” e lo stress che ne consegue, tendiamo non solo a crearci degli schemi di aspettative rispetto alla realtà e alle persone, ma anche a ignorare o rifiutare le esperienze e le informazioni che contrastano con questi schemi, per evitare lo sforzo di rinunciarvi o di modificarli.

Pur di difendere le nostre certezze, poco importa se effettive o fittizie, evitiamo tutto ciò che potrebbe disconfermarle: ad esempio, chi nutre avversione per i migranti probabilmente rifiuta tutte le informazioni e le esperienze che potrebbero smontare la sua convinzione che siano un peso, che ogni euro speso per l’accoglienza sia tolto ai pensionati e alle famiglie indigenti, o che vi siano differenze talmente profonde tra “noi” e loro” da rendere impossibile qualsiasi relazione. Non è questa la sede per confutare queste opinioni tramite informazioni oggettive, per quanto facilmente potrei farlo: qui mi preme piuttosto mostrare come mai la mente delle persone vi si appiglia così potentemente.

La tensione a mantenere le nostre posizioni e ad evitare di modificare i nostri schemi è così forte da poterci privare di intere porzioni di esperienza: chi ha un’opinione negativa dei migranti difficilmente stringerà amicizia con una persona africana, confermando così a priori la propria paura, in un circolo vizioso che conduce a una perdita di contatto con la realtà.

Mi limito ad accennare al fatto che, se spinto agli estremi, questo meccanismo di rigido evitamento della dissonanza fino a una disconnessione da una genuina relazione col mondo è tra i fattori essenziali della schizofrenia: e in effetti certi articoli di cronaca, e ancor più certi commenti che li accompagnano sui social network, mi fanno pensare che ci troviamo in una società psicotica.

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– Identità sociale

Sempre intorno alla metà del secolo scorso, altri studiosi mostrarono che è sufficiente dividere le persone secondo un criterio superficiale (come ad esempio la preferenza per i dipinti di Paul Klee o di Vassilij Kandinskij nell’esperimento di Tajfel) per scatenare dinamiche di identificazione con il proprio presunto gruppo, con una conseguente visione dicotomica di “noi” e “loro”, fino ad arrivare all’attribuzione di caratteristiche “migliori” al proprio gruppo e alla preferenza per i suoi membri rispetto a quelli dell’altro gruppo.

E’ ovvio, quindi, che questi meccanismi siano forti a maggior ragione quando hanno come pretesto non una semplice preferenza artistica, ma appartenenze a cui ci è stato insegnato a dare un’importanza capitale, come la nazionalità o la religione.

Anche la tendenza all’identificazione sociale, a ben vedere, è originariamente sana e utile alla sopravvivenza: l’uomo è un animale sociale che è sempre vissuto in branco e ha sempre avuto bisogno di formare gruppi fortemente coesi di fronte alle avversità. Ma è lecito che a questo scopo dimentichiamo di appartenere tutti, appunto, al grande gruppo dell’umanità?

– La prigione di Stanford

Si tratta forse dell’esperimento di psicologia sociale più inquietante e controverso di tutti i tempi.

Nel 1971, il prof. Zimbardo selezionò 24 giovani studenti universitari, bianchi rampolli della buona società statunitense, scegliendoli espressamente mentalmente equilibrati e poco attratti da comportamenti devianti.

I ragazzi furono divisi secondo un criterio casuale in due gruppi, le “guardie” e i “carcerati”. Fu realizzata una finta prigione in cui i partecipanti furono invitati a interpretare i loro ruoli, simulando la quotidianità di un carcere. Ebbene, il “gioco” sfuggì di mano alle guardie al punto che si verificarono episodi violenti, per cui gli sperimentatori decisero di sospendere l’esperimento prima del tempo prestabilito per evitare la morte di qualche partecipante. E tutto per quella che doveva essere una messa in scena.

Ora, non è forse il mondo una enorme messa in scena dove persone in partenza libere e uguali finiscono per lottare tra loro senza un reale motivo, dopo essere state divise secondo un criterio casuale (la nascita in una parte del mondo o in un’altra) che conferisce loro potere, diritti e privilegi, oppure le rende vittime di oppressione, limitazioni di libertà e cattive condizioni di vita?

E non si creda che sia caratteristica di pochi individui “devianti” l’essere potenzialmente in grado di commettere violenze in nome di queste divisioni: è esperienza personale di chi scrive l’incontro con un attempato hippie, amabile e spassoso, che girava il mondo in autostop con un piccolo zaino e scriveva romanzi sulla spiritualità dell’India… di fronte a una tazza di yogurt e frutta in un ostello della Cappadocia costui rivelò con una tranquilla risata di essere stato tra i partecipanti all’esperimento di Stanford, con tanto di foto pubblicate online che lo provavano. Quanto a quale fosse il suo ruolo, disse che era “ovviamente” quello del carceriere: difficile dire se nel brivido che mi è corso lungo la schiena ci fosse più questa rivelazione o quell’inopportuno “ovviamente”.

– L’obbedienza all’autorità

Nel 1961 Milgram allestì una realistica e ingegnosa simulazione allo scopo di studiare la tendenza delle persone a obbedire a un’autorità anche quando essa ordina di fare del male a qualcun altro.

Ai partecipanti fu detto che gli scienziati stavano sperimentando un nuovo metodo di insegnamento, che prevedeva la somministrazione di scosse elettriche in caso di risposta sbagliata da parte dello “studente”. Investiti dall’autorità scientifica del ruolo di “insegnanti”, i partecipanti dovevano interrogare gli “studenti” (in realtà collaboratori degli sperimentatori) e somministrare personalmente scosse elettriche (naturalmente finte) di intensità crescente. I pulsanti che servivano apparentemente a somministrare le scosse erano contrassegnati da varie diciture, come “scossa lieve”, “media”, “forte” e così via, fino all’ultima che era accompagnata da tre X, suggerendo addirittura un pericolo mortale.

La percentuale di persone che, pur esitando o protestando, di fronte alle richieste di proseguire da parte dell’autorità rappresentata dagli sperimentatori, arrivarono a somministrare la scossa più forte è molto più alta di quanto chiunque sia dotato di una minima fiducia nell’essere umano potrebbe o vorrebbe pensare.

Allo stesso modo oggi, di fronte agli slogan imperativi di un’autorità rappresentata da un partito politico o da leggi necessariamente imperfette e fallibili, c’è chi si rallegra per i naufragi, chi si prende la briga di innalzare barricate contro una quindicina di donne e bambini e chi considera giusto che vengano arrestate, detenute ed espulse persone che non hanno commesso alcun crimine se non quello di cercare per sé e per la propria famiglia la stessa sicurezza, gli stessi diritti o anche solo lo stesso benessere che noi diamo per scontati.

Tornando all’esperimento di Milgram, il suo risultato più interessante non riguarda tanto il meccanismo di obbedienza all’autorità di per sé, ma l’enorme differenza nella percentuale di coloro che arrivavano a somministrare la scossa più forte al variare della distanza tra “insegnante” e “allievo”. Furono sperimentate quattro diverse condizioni: alcuni partecipanti non ebbero nessuna forma di contatto con le presunte “cavie”; altri potevano udire, altri ancora udire e osservare le reazioni di dolore che i collaboratori degli sperimentatori simulavano all’arrivo delle scosse elettriche; infine, un’ultima parte dei soggetti per infliggere la scossa doveva fisicamente afferrare il braccio dell’altro e porlo su una piastra metallica apparentemente elettrificata. Tra la prima e l’ultima condizione la percentuale di persone che arrivarono a infliggere la scossa più forte fu più che dimezzata.

Possiamo scegliere di disperare sapendo che anche nella condizione di maggiore vicinanza il 30% delle persone arrivò a somministrare una scossa che riteneva potenzialmente mortale a qualcuno che aveva semplicemente sbagliato un calcolo solo perché un uomo con un camice e un titolo gli chiedeva di farlo. Oppure possiamo dedurre che la vicinanza tra le persone, la responsabilizzazione individuale e l’esperienza del dolore altrui riducono drasticamente la propensione degli esseri umani a sentirsi autorizzati a fare del male a chi si trova in una posizione di svantaggio.

– Collaborazione ad uno scopo sovraordinato

A questo punto veniamo a parlare di quali strumenti la psicologia sociale ci dà per capire come abbattere pregiudizi e discriminazioni.

Nel 1951 Sherif condusse un complesso esperimento in un campeggio negli Stati Uniti. Nei primi giorni della loro permanenza 20 ignari ragazzini di 12 anni furono divisi in due squadre e impegnati in giochi competitivi, facendo nascere immediatamente rivalità e aggressività tra i due gruppi.

La fase successiva dell’esperimento consisteva nel riportare la pace e l’unità fra i due gruppi: con sorpresa degli sperimentatori, a poco o nulla servì la proposta di attività piacevoli e non competitive, come la visione di uno spettacolo pirotecnico.

Allora, gli sperimentatori simularono un guasto al furgoncino che trasportava i rifornimenti di cibo: tutti i ragazzi dovettero unire le forze per far arrivare a mano il cibo al campeggio a vantaggio di tutti, e le rivalità iniziali tra i due gruppi si dissolsero nel nulla.

Nello stesso modo, un’opinione pubblica che attribuisce ai migranti e ai richiedenti asilo praticamente tutti i problemi della società, dalla criminalità alla disoccupazione alle carenze dello stato sociale, non fa altro che alimentare una “guerra tra poveri” che non conduce a nulla; nel momento in cui ci riconosciamo tutti parte di un mondo più complesso e più grande di ciò che possiamo vedere poco oltre il nostro naso, ci scopriamo, è il caso di dirlo, tutti sulla stessa barca, dove si affonda o si approda a una terra che si spera possa meritare in futuro l’appellativo di “Splendente”, come dice l’origine del nome Lampedusa.

IL CORPO PARLA (E 8 MODI DI DIRE DIMOSTRANO CHE LO SAI GIA’)

“E’ tutta questione di testa!” “Sono solo tue fissazioni, in realtà non hai niente!” “Potresti stare bene se solo non ci pensassi così tanto!”
Sono frasi che feriscono, fanno stare male più di quel mal di testa, di pancia o di schiena che non vuol saperne di passare.
L’idea che un malessere fisico possa avere origine psicologica per molti può suonare offensiva e svalutante, come se equivalesse a un’accusa di “fingere” o “inventarsi” di stare male. Questo pregiudizio è così radicato che perfino il termine scientifico “psicosomatico” è diventato sinonimo di qualcosa che banalizza il malessere, sminuisce il paziente e minimizza il suo sentire.
La realtà è totalmente diversa e notevolmente più complessa, non solo dal punto di vista del paziente, ma anche del professionista della salute psicologica.

Nella nostra cultura siamo abituati a considerare il cervello come unica sede della psiche e la parola come sua unica possibilità di esprimersi. L’idea che una sofferenza emotiva possa manifestare la sua presenza attraverso un sintomo fisico è qualcosa a cui molti di noi faticano a dare un senso.
Ecco allora che le visite dal medico di base si fanno sempre più frequenti, e tutti i possibili esami specialistici seguono di pari passo; le confezioni di medicinali occupano sempre più spazio in casa, e siamo pronti a provare qualsiasi metodo pur di stare meglio; il malessere monopolizza le nostre conversazioni, e nella ricerca di risposte alle nostre domande ci affidiamo sempre di più a Internet e ai social network, dove le informazioni contraddittorie e false date da ogni tipo di persone non qualificate sono di gran lunga più numerose dei veri pareri medici.
Tutto questo ci sottrae tempo, energie mentali e denaro.
A volte nonostante tutto il problema persiste, resiste anche ai farmaci oppure scompare per brevi periodi solo per poi ripresentarsi nella stessa forma o “migrare” in un’altra parte del corpo.
In questi casi, considerare l’ipotesi che il malessere fisico sia un’espressione della psiche è qualcosa che dobbiamo a noi stessi, se vogliamo portarci il rispetto che meritiamo.
Quando abbiamo dentro un dolore emotivo, una tristezza, una delusione, una rabbia, una paura, un’ingiustizia, di cui però non riusciamo a parlare, la nostra psiche ha a disposizione il nostro corpo come mezzo per farci sapere che qualcosa non va, e che c’è bisogno di un cambiamento ben preciso.
Il sintomo fisico, allora, proprio come quello psicologico, non va combattuto ed eliminato come un fastidioso contrattempo, ma accolto e ascoltato come un prezioso messaggio dalle nostre profondità. Solo a quel punto il sintomo avrà svolto la sua funzione, pertanto non ce ne sarà più bisogno e potrà scomparire da solo o essere eliminato efficacemente.Psicosomatica
Qualsiasi condizione medica può avere una componente psicosomatica, anche se alcuni tipi di disturbi si prestano più di altri a fungere da canale di comunicazione per il malessere psichico. Ciò non significa che determinati mali abbiano sempre origine psicologica, nè tantomeno che componenti emotive e fisiche si escludano a vicenda, anzi, si tratta sempre e comunque di un’interazione tra le due facce di una stessa medaglia.

I sintomi, qualunque sia la loro provenienza, sono reali. L’origine psicosomatica di un disturbo non autorizza a minimizzare la sua gravità, a dubitare della sua esistenza nè a ignorarlo: indica semplicemente che la strada per risolverlo passa, almeno per alcuni tratti, fuori dal territorio del medico.

Come chi mi segue sa, la psicologia non è qualcosa di astratto, misterioso e avulso dalla realtà, ma anzi trova spesso corrispondenza nel buon senso comune. Per questo, ho individuato alcuni modi di dire di uso quotidiano che ci aiuteranno a capire in modo immediato che le profonde corrispondenze tra corpo e psiche sono qualcosa che tutti già conosciamo, e che fa già parte del nostro linguaggio abituale, anche se non sempre vi facciamo caso.
Questo piccolo “dizionario” psicosomatico ovviamente non va preso alla lettera, e non è mia intenzione sostituire o sminuire le competenze di un medico. L’obiettivo è solo quello di proporre uno spunto di riflessione affiancando un diverso punto di vista.
– Caricarsi il mondo sulle spalle:
Quante volte nella nostra vita famigliare o professionale ci assumiamo responsabilità non nostre, siamo oggetto di aspettative eccessive da parte degli altri o pretendiamo di risolvere da soli problemi più grandi di noi? Tutti questi “pesi” possono farci soffrire di mal di schiena finchè non troveremo il coraggio di scrollarceli di dosso.

– Mi sta qua!
L’eloquente gesto di colpirsi il petto o la base del collo con la mano disposta di taglio, con cui di solito si accompagna l’esclamazione, fa pensare a un ostacolo che ci impedisce di parlare e dire ciò che davvero pensiamo di una persona che ci è sgradita o di una condizione che non riusciamo ad accettare. Un senso di soffocamento o di costrizione al petto o alla gola, apparentemente immotivato o che si presenta regolarmente quando ci troviamo in una determinata situazione, può avere proprio questo significato. Forse potrà lasciarci quando riusciremo a rivelare i nostri veri sentimenti in una situazione in cui è difficile farlo.

– Non riesco a digerirlo:
In modo simile a quanto detto al punto precedente, una situazione che proprio “non ci va giù”, una delusione che “ci resta sullo stomaco”, una novità che “non riusciamo ad assimilare” o una relazione che ci “intossica” possono giocare un ruolo importante in problemi digestivi, inappetenza, conati di vomito ricorrenti o difficoltà a deglutire. Questi problemi possono anche essere legati a una forte ansia che abbiamo bisogno di affrontare.

– Prendersi il mal di pancia (di fare qualcosa):
Equivale a “darsi il disturbo”, preoccuparsi o incaricarsi di fare qualcosa, solitamente un’incombenza sgradevole, che magari altri eludono. Ma quando “ci diamo troppi mal di pancia”, ricorrenti problemi intestinali possono essere sintomi di un sano bisogno di “espellere” dalla nostra vita ciò che ci procura ansia e fatica eccessive.

– Lo sento a pelle:
La pelle è un organo meraviglioso, abbastanza solido da proteggere efficacemente il corpo dagli innumerevoli agenti esterni potenzialmente aggressivi, ma anche tanto sensibile da permetterci di percepire attraverso il tatto. Può essere ferita e rigenerarsi, ed è il primo e più primitivo mezzo di relazione tra il neonato e la madre. Pertanto dermatiti, psoriasi, irritazioni e altre alterazioni del delicato equilibrio della pelle talvolta ci parlano di una compromissione dell’altrettanto delicato equilibrio tra relazione con l’altro e definizione della propria individualità.

– Mi fa cadere le braccia:
Questa espressione rende benissimo un senso di incredula rassegnazione a una situazione deludente e ripetitiva, in cui chi parla sente che qualsiasi reazione sarebbe inutile.
Se proviamo un ricorrente senso di spossatezza durante il giorno o fin dalla prima serata, non giustificato da particolari sforzi fisici, possiamo provare a chiederci se è la rassegnazione a toglierci le energie. Potremmo perfino scoprire, col tempo ed eventualmente con un aiuto esterno, che il cambiamento non è fuori dalla nostra portata.

– Non dormirci la notte:
Può sembrare scontato che spesso l’insonnia nasca da una preoccupazione, una paura o un pensiero fisso angosciante. Tuttavia, quando capita a noi, a volte siamo più propensi ad assumere sonniferi o psicofarmaci piuttosto che a chiederci qual è la radice del problema, e ad affrontarla con i mezzi che abbiamo a disposizione, incluso eventualmente l’aiuto di uno psicologo.

– Rosicare/rodersi:
Questa colorita metafora, di solito riferita a chi ha subito una sconfitta o desidera qualcosa che non possiede, esprime uno stato di tensione, amarezza e aggressività. Queste stesse emozioni possono essere alla base del bruxismo, una disfunzione che consiste nel digrignare rumorosamente i denti durante il sonno. Generalmente il paziente non si accorge di farlo, ma dal bruxismo possono derivare dissapori di coppia dovuti al disturbo che il rumore arreca al sonno del partner e, alla lunga, problemi odontoiatrici. Si trovano oggi in commercio appositi oggetti da tenere in bocca durante la notte per attutire il digrignamento e proteggere i denti, ma vale comunque la pena di prendere atto del fatto che l’aggressività non è sempre e solo qualcosa di negativo: anzi, è una componente fondamentale dell’assertività, della forza di volontà e della capacità di salvaguardare noi stessi e le cose a cui teniamo.
Abbiamo visto, con l’aiuto di alcuni esempi, che la sfera psicosomatica influisce in modo decisivo su alcune condizioni mediche molto diffuse.
In questi casi, il solo intervento del medico può non essere sufficiente, e può essere utile quello dello psicologo. Aspettiamo con fiducia il momento in cui ci si renderà conto che l’istituzione della figura dello Psicologo di base in affiancamento al Medico di base comporterebbe un notevole miglioramento della salute pubblica, con un forte risparmio sia per il cittadino che per il Sistema sanitario nazionale in termini di denaro, tempo ed energie spesi in visite, accertamenti diagnostici e farmaci inefficaci perchè non pertinenti alla natura di alcuni problemi.