LA DEPRESSIONE

La depressione è il disturbo mentale più diffuso in Italia, ma spesso è anche il meno riconosciuto e il più banalizzato.

La parola “depressione” e l’affermazione “sono depresso/a” sono entrati talmente tanto a far parte del linguaggio comune, che c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza affinché questo problema, e soprattutto le persone che ne soffrano, siano guardate con rispetto.

Secondo l’ultimo rapporto Istat, ne soffrono nel nostro Paese ben 2 milioni e ottocentomila persone, anche se siamo tra i Paesi europei con una minore presenza di depressione nella popolazione.

Le donne (9,8%) sono colpite quasi il doppio degli uomini, e la percentuale di anziani che ne soffrono (14,9%) è quasi tre volte superiore a quella dei più giovani.

Essere depressi non significa semplicemente essere tristi, giù di corda, molto delusi per qualcosa o annoiati. La depressione non è qualcosa che possa essere risolto con una passeggiata, una serata di divertimento, un incoraggiamento o un gelato al cioccolato.

La depressione è un disturbo dell’umore, e come tale non è tra gli aspetti della vita che possiamo controllare semplicemente con la nostra volontà.

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La depressione è una condizione profondamente limitante per chi la vive. Tristezza, apatia, convinzioni negative su se stessi e sulla propria vita, mancanza di slancio e interesse verso attività e idee, impossibilità di fare progetti, di porsi e perseguire un obiettivo, pensieri rivolti alla morte: tutti questi vissuti incombono sulla persona fino a farla sentire come se fosse sola in una stanza buia da cui non riesce a uscire, guardando la vita attraverso il buco della serratura.

Oltre ai vissuti emotivi, la depressione ha ripercussioni fisiche difficili da ignorare: senso di spossatezza perenne, lentezza nei movimenti, nelle azioni e nel parlare, difficoltà a concentrarsi, diminuzione dell’appetito e dell’interesse per il sesso, letargia o disturbi del sonno.

Nella vita quotidiana, le limitazioni che la depressione comporta possono andare da una progressiva riduzione della vita sociale e del rendimento lavorativo, a serie ripercussioni sull’eventuale relazione di coppia, ad una imponente difficoltà a stare fuori dal letto e ad uscire di casa, con possibile perdita del lavoro, isolamento e disinteresse generale per la vita, fino purtroppo ad arrivare a farsi del male o tentare il suicidio. Una persona con depressione su 10 nel corso della vita ha compiuto almeno un tentativo di suicidio.

Nel suo nucleo più profondo, la depressione è l’impossibilità di avere e fare progetti, di guardare la vita con occhi desideranti, di pensare al futuro.

La depressione, però, non è un qualcosa di unico, sempre uguale a se stessa o semplice da definire.

Si possono distinguere principalmente tre tipi di depressione, molto diversi tra loro, non tanto nel tipo di sintomi, quanto piuttosto nel ruolo che occupano nella vita di chi ne soffre.

– Depressione maggiore o endogena

E’ una vera e propria malattia, che non può in alcun modo essere sottovalutata o banalizzata.

Riguarda meno della metà del totale delle persone con qualche tipo di problematica depressiva.

Si caratterizza per una durata molto lunga, a volte indefinita, e per la presenza in misura imponente e pervasiva dei sintomi descritti sopra.

La persona che ne soffre può essere sempre triste, nutrire profondo pessimismo su se stessa e il futuro, non provare interesse e desiderio verso niente, isolarsi e non riuscire a coinvolgersi nelle attività quotidiane, perfino pensare alla morte e al suicidio, talvolta senza che sia apparentemente possibile per chi le sta intorno individuare una causa scatenante, un evento negativo importante che “giustifichi” tutto ciò.

La depressione endogena, però, è tale proprio perché arriva dagli strati più profondi della storia e della psiche di chi ne soffre.

Si ritiene che nella depressione endogena abbiano un ruolo i fattori organici e biologici, legati al funzionamento dei neurotrasmettitori e del sistema nervoso, insieme alle primissime esperienze affettive dell’infanzia, e perfino alle sofferenze di chi ci ha preceduto nelle generazioni passate della nostra famiglia.

E’ possibile che esista in alcune persone una predisposizione genetica, una vulnerabilità innata alla depressione, che si tramuta in realtà se incontra esperienze di vita che attivano vissuti depressivi, un po’ allo stesso modo in cui esistono persone geneticamente predisposte ad abbronzarsi più di altre, ma come tutti si abbronzano soltanto se si espongono al sole.

In caso di depressione maggiore, una terapia farmacologica può essere necessaria per sostenere il paziente, possibilmente abbinata ad una psicoterapia. La combinazione delle due cose è la cura più efficace.

– Depressione reattiva

Come suggerisce il termine, è una reazione ad un evento esterno avverso chiaramente identificato. Un lutto, il pensionamento, la perdita del lavoro, un figlio che se ne va di casa, la fine di una relazione sentimentale, lo sradicamento dalla propria terra di origine: si tratta comunque di una qualche forma di perdita importante.

Quella persona o cosa non era solo parte della nostra vita, ma anche della nostra stessa identità, ed ora che l’abbiamo persa è come se fosse morta una parte fondamentale di noi stessi.

Il dolore di questo momento, però, è qualcosa di più e di diverso da un sintomo da eliminare. Questa è una foresta buia che è necessario attraversare per proseguire il viaggio della nostra vita, è una sosta dove ci sentiamo deboli, ma ci renderà più forti.

In una società come la nostra, che ci vuole veloci, efficienti e sempre sorridenti, è difficile pensare alla depressione reattiva come a qualcosa di sano, eppure è così.

Di fronte ad un lutto, ad esempio, alcune persone, sopraffatte dal dolore oppure preoccupate di proteggere i loro cari, non permettono a se stesse di sperimentare la tristezza e la perdita: si sforzano di apparire allegre, diventano o rimangono estremamente attive, evitano ad ogni costo di parlare della persona defunta. Sperano così di saltare, o di far saltare ai loro cari, la fase più profonda della sofferenza. Purtroppo, però, il dolore non sparisce, finisce da qualche altra parte, e si ripresenterà in modi e tempi imprevedibili, fino a che non verrà affrontato.

Chi esprime una depressione reattiva, invece, ha cominciato ad affrontare il dolore, sta attraversando la foresta buia, e con i propri tempi e modi arriverà a rivedere il sole e a ritrovare il sentiero.

Non a caso nei tempi antichi, quando non avevamo gli psicofarmaci ma una saggezza che ora abbiamo perso, chi perdeva una persona cara doveva “portare il lutto” per un anno, con una serie di prescrizioni sull’abbigliamento e le attività quotidiane: la fase depressiva che stava attraversando era così riconosciuta, accettata e rispettata da tutti.

Chi soffre di depressione reattiva può trarre grande beneficio dal sostegno accogliente, incondizionato e non giudicante delle persone che lo circondano, ma anche da un percorso di supporto psicologico.

– Depressione endo-reattiva

A volte una depressione reattiva si protrae molto a lungo dopo l’evento che l’ha scatenata, i sintomi sono imponenti e non sembrano migliorare.

Non è possibile stabilire la “data di scadenza” che sancisce la fine di una tristezza “sana” e l’inizio di una “patologica”: ognuno ha i propri tempi per superare un lutto o una perdita.

Quello che distingue la depressione endo-reattiva da quella reattiva è una sproporzione, un eccesso nell’invasività e nella durata dei sintomi, percepita dalla persona stessa per prima.

Non è facile per chi è vicino ad una persona con depressione comprendere quando è il momento di accettare la situazione e quando è ora di spronare l’altro a reagire: l’ “esperto” in questo caso non è altri che chi soffre. Solo chi vive la situazione in prima persona può, ascoltando profondamente se stesso e le stagioni della propria anima, dare il ritmo alla camminata verso la rinascita.

Un discorso a parte merita la depressione post partum, un grande tabù della nostra cultura.

Ora che (fortunatamente!) nella nostra società avere un figlio è diventata la realizzazione di un desiderio, e non tanto di un dovere o di un evento naturale e incontrollabile, al momento della sua nascita non sembra esserci spazio per altro che non sia incontenibile gioia e felicità: se c’è tristezza, smarrimento, senso di perdita, paura di essere inadeguate, allora scatta anche il senso di colpa per questi sentimenti che devono per forza essere “sbagliati”.

Ma perché, in quello che ci si aspetta essere, ed è, l’evento che molte persone considerano il più felice della propria vita, una donna può sentirsi depressa, svuotata, triste, piangere spesso, non sentire di avere le forze per prendersi cura del proprio bambino, e addirittura pensare alla morte o a fare del male a se stessa e al piccolo?

Hanno certamente un ruolo fattori ormonali legati alla gravidanza. Come è noto, e al di là di facili umorismi sessisti, gli ormoni possono influenzare l’umore, i pensieri e i comportamenti delle persone: non c’è da stupirsi che questo avvenga al momento della più rapida ed eclatante trasformazione fisica che il corpo umano possa affrontare.

Sarebbe molto scorretto, però, ridurre un problema serio come la depressione post partum a uno squilibrio bio-chimico: gli intrecci di fattori psicologici, sociali e culturali non possono essere trascurati.

La condizione femminile nell’Europa del ventunesimo secolo è più contraddittoria di quanto vorremmo poter pensare.

Sempre fortunatamente, nella nostra società il ruolo di madre non è più l’unico che una donna può assumere, e avere un figlio non è più l’unico atto di valore che una donna può compiere: noi donne abbiamo anche una vita professionale e intellettuale, possiamo essere artiste, attiviste e molte altre cose ancora.

A questo punto rischiamo quindi di trovarci doppiamente penalizzate: da un lato, perché alla nascita di un bebè dobbiamo almeno momentaneamente accantonare tutto il resto, perdendo temporaneamente il contatto con parti importanti della nostra identità; dall’altro lato, perché i fantasmi antichi sono appena dietro la porta, insieme ai pregiudizi che portano una mamma lavoratrice, sindaco o direttrice di una corale a sentirsi mortalmente in colpa se ha ancora altri obiettivi oltre a quello di dedicarsi al suo bambino.

A questo si aggiunge il fatto che se un tempo, almeno in campagna e nei piccoli centri abitati, le famiglie erano più numerose, tendevano ad abitare insieme, la comunità era improntata a una fitta rete relazionale tra donne e pertanto la neo-mamma era sempre circondata di persone, attenzioni e consigli (forse anche troppi!), oggi sempre più donne si trovano ad affrontare la maternità in casa da sole, talvolta lontane centinaia di chilometri dalla loro famiglia di origine, con amiche e parenti che hanno poco tempo ed energie a disposizione per aiutarla o anche solo tenerle compagnia.

Ben vengano, certo, le molte attività per mamme e neonati oggi disponibili, dall’acquaticità ai corsi di massaggio neonatale, dai gruppi tematici ai corsi di aerobica col passeggino, che oltre ad essere pensate per il benessere dei piccoli aiutano le mamme ad uscire, conoscere persone nuove con cui condividere molte cose, parlarsi e sostenersi fra loro, ma non è questo a risolvere una delle più preoccupanti emergenze della salute mentale del nostro tempo.

Sarebbe bello se ai cambiamenti realizzati nella condizione femminile ne corrispondessero altrettanti nella condizione maschile, e fossero date ai padri più opportunità di conciliare la vita lavorativa e famigliare: il sostegno e l’amore delle persone a lei più care, infatti, sono la più grande protezione per una mamma contro la depressione post-partum.

Ultimo ma non ultimo, soprattutto nei Paesi dell’Europa mediterranea, siamo pur sempre intrisi di una spiritualità che fonde la maternità con elementi religiosi e archetipici di forte impatto sull’inconscio collettivo.

La Madre per antonomasia rappresenta una perfezione “immacolata”, un amore sacrificale, una tale santità, che eleva noi madri terrene, cristiane o meno e consapevoli o meno, su un piedistallo quasi divino, ma al contempo ci getta in un confronto ideale da cui possiamo uscire solo “sconfitte”… questo, però, soltanto se dimentichiamo che siamo umane e che, come disse Winnicott, uno dei padri della psicologia, il bambino non ha bisogno di una madre perfetta, ma di una madre “sufficientemente buona”.

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