Il ballo come forma di cura per l’anima

Non parlo tanto della danza come forma d’arte che avviene su un palcoscenico, appannaggio di pochi corpi eletti e domati da una vita di studio, ma del ballo come pratica popolare, accessibile a tutti, e che trova la sua ragione d’essere non negli occhi di chi guarda, ma nel suo stesso movimento e nella relazione che si crea tra i ballerini.

Spesso chi attraversa un periodo di depressione, chi è reduce dalla rottura di una relazione o chi ne ha una problematica si sente consigliare dagli amici di iscriversi a un corso di ballo: dietro ad un apparentemente banale “tirarsi su il morale”, “conoscere gente nuova” e “svagarsi”, c’è molto di più.

Ogni ballo ha per così dire un mondo che si porta dietro: in una parola, una sua anima.

Ogni ballo nasce in un contesto storico, geografico e socio-culturale preciso, spesso, come ho narrato nel primo articolo, caratterizzato già di per sé da un’alterità: una comunità di migranti, come gli italiani in Argentina che diedero origine al tango, o di deportati, come gli schiavi brasiliani che inventarono la capoeira per aggirare il divieto di allenarsi nella lotta per riconquistare la libertà, oppure di nomadi, come i gitani che con il loro secolare cammino hanno tracciato un unico ideale passo di danza che collega Bollywood e l’Andalusia.

Ogni ballo poi cresce e cambia insieme ai mutamenti del tempo, a volte sviluppando nuovi stili, come la danza del ventre street shaabi che al suono etereo della darabouka e alle lunghe gonne ornate di monete sostituisce in parte jeans e sintetizzatore; spesso il ballo nella sua evoluzione conquista popoli e gruppi sociali estranei alle sue radici, come hanno fatto i balli caraibici negli Stati Uniti e in Europa. In questi incontri il ballo “importato” si adatta al gusto e all’immaginario collettivo preesistenti e li influenza allo stesso tempo.

Qualcuno sostiene che i balli – e tutti i prodotti culturali in generale – vadano così a snaturarsi e perdere la loro cosiddetta “autenticità”: la questione è semplicemente mal posta e a dirlo non sono io ma l’antropologia da qualche tempo a questa parte.

La natura stessa dei prodotti culturali (balli, cibi, indumenti, ricorrenze, rituali religiosi e laici…) è dinamica, e il mutamento fa parte della loro autenticità: non è necessario reificare e “imbalsamare” un prodotto culturale affinché rimanga “vero”, perché la cultura è qualcosa di vivo e l’imbalsamazione ne implica la morte.

Le ibridazioni fanno parte della storia, la contaminazione è nella natura delle cose, l’alterità è cultura, la cultura non può che nascere nell’alterità.

Lo stesso vale per l’incontro e la relazione tra due persone. Non saremmo umani, non potremmo esistere senza gli incontri, le relazioni e le appartenenze che caratterizzano e trasformano la nostra vita.

Tu sei anche i tuoi legami, le tue esperienze, le tue relazioni, gli ambienti che frequenti, sei quelle cose che per te sono importanti e piene di senso: tutto ciò in psicodramma si rappresenta in quello che si chiama “atomo sociale”, un gioco che solitamente un nuovo membro del gruppo viene invitato e accompagnato a realizzare per presentarsi durante la sua prima sessione di “anima in azione”.

L’atomo sociale, a questo punto dovrebbe essere evidente, non è qualcosa di statico, ma è in continua evoluzione, trasformazione e movimento.

Non possiamo ballare da soli fin dall’inizio e per sempre, né possiamo ballare per tutta la vita nello stesso modo.

Per Jung, tutto l’universo si regge sulla tensione dinamica tra opposti: vita e morte, luce e ombra, maschile e femminile. Opposti che si cercano, si avvicinano, si allontanano, si avvicendano, si tengono in equilibrio a vicenda, opposti in cui ognuno dei due poli esiste grazie all’altro.

La stessa tensione dinamica, lo stesso equilibrio di forze, la stessa reciprocità fa muovere una coppia di ballerini.

Danzare, e soprattutto danzare in coppia, ci porta fuori dalla nostra zona di comfort verso lo spazio dell’Altro, richiedendoci allo stesso tempo di non invaderlo. Ci chiede di rinunciare al totale controllo della situazione per farci guidare, dall’altra persona se danziamo il ruolo di follower, e soprattutto dalla musica in tutti i casi. Ciò presuppone un continuo esercizio di rispetto di sé e dell’altr*.

Occorre forza, coraggio, fiducia e padronanza di sé per guidare, ma altrettanto per farsi guidare, magari da una persona mai vista prima.

Eppure, scatta una connessione di energie, come un elastico che tiene insieme i movimenti dei due. Uno dei pregiudizi più diffusi (e più mortificanti) della nostra cultura riduce il contatto fisico a qualcosa di necessariamente sessuale: non è così. Certo, la pista da ballo si presta bene al nascere di attrazioni e innamoramenti, ma l’intesa di due ballerini ha a che fare con qualcosa, se possibile, ancora più primordiale e istintivo del sesso: il gioco.

Dopo una giornata di serissimo lavoro al computer, un noiosissimo viaggio in autobus trascorso al cellulare e un controllatissimo pasto consumato davanti alla TV, tendiamo a dimenticarci che siamo anche e fondamentalmente corpo: il ballo è lì a ricordarcelo.

Siamo un corpo che ha desiderio e bisogno di muoversi, di giocare, di incontrare altri corpi.

Il ballo è incontro allo stato puro, l’incontro autentico su cui Moreno, irriducibile ottimista fiducioso nell’umanità, ha fondato tutto il metodo dello psicodramma.

Il ballo è uno dei pochi momenti in cui a noi adulti è concesso giocare come facevamo da bambini.

Se è piacevole e non ha uno scopo pratico, allora è un gioco.

“Ciao, facciamo che io ero un drago e tu un mago? Quello era il castello, tutto intorno c’era la lava bollente ma noi volavamo in alto verso il tesoro…” Certo, perché no? Niente di più semplice.

“Chi arriva per primo a quell’albero è il re del mondo!” Perché? Per nessun motivo, ma in questo istante è di estrema importanza.

Un foulard messo in un certo modo, ed eri la tua maestra di scuola preferita. Lo avvolgevi in un altro modo, ed eri una sirena. Lo agitavi in aria ed eri un guerriero a cavallo. Lo gettavi a terra e volavi su su un tappeto volante.

Dico, ve lo ricordate?

Se non ve lo ricordate, dovreste ballare.

Se ve lo ricordate, dovreste ballare.

 

 

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