IL POZZO

Hai mai sognato di camminare per strada in mezzo alla gente e renderti conto improvvisamente di essere in mutande o completamente nudə? Se sì non preoccuparti, non sto per diagnosticarti nessun disturbo mentale, anzi, è un’esperienza onirica molto comune.

E hai mai giocato a strip poker? O più semplicemente, ti sei mai spogliatə nello spogliatoio di una piscina, di una palestra o di un bagno turco?

E’ molto probabile che nel sogno tu abbia provato imbarazzo, senso di inadeguatezza, paura, impulso di nasconderti, coprirti o fuggire. Nelle altre due situazioni, invece, è molto probabile che tu ti sia sentitə a tuo agio, tranquillə o anche contentə e divertitə.

Nello stesso modo, anche chi non ha nessun timore della cosiddetta “prova costume” (tema che meriterebbe un articolo a parte e probabilmente lo avrà) non lo indossa certo al supermercato o a una riunione di lavoro.

Perché? Qual è la differenza? Ma è ovvio! Da una parte sei l’unicə ad essere senza vestiti e percepisci la cosa come fuori luogo, dall’altra tutti quanti in quel contesto sono nella stessa condizione e lì “si può”.

E allora perché non sembra ovvio anche quando si parla di espressione di sé in un gruppo?

Quello dell’imbarazzo nel raccontarsi di fronte ad altre persone è lo scoglio che incontro più spesso nel promuovere e far conoscere il meraviglioso metodo dell’Anima in azione – mi sembra di sentirti che ridacchi a mezza voce “eh, siamo Biellesi!”, eppure non credo sia questo il motivo principale.

Credo che un’iniziale difficoltà a condividere qualcosa di sé in gruppo sia universale, per quanto, a parte gli scherzi, fattori culturali e antropologici giochino un ruolo importante nelle mille sfumature diverse che questa esperienza può assumere.

Fin da piccoli apprendiamo che le persone intorno a noi si aspettano che nascondiamo alcune funzioni fisiologiche del nostro corpo, numerose possibilità della nostra parola e molti movimenti del nostro mondo interno. Non sta bene. Davanti agli altri questo non si fa. Salva la faccia. Non piangere, non fare la femminuccia. Non arrabbiarti, che sembri un maschiaccio. Questo non si può dire. Fai buon viso a cattivo gioco. I panni sporchi si lavano in casa. Sorridi o butterai giù il morale a tutti. Non è il momento di parlarne – ma poi arriva mai, il momento?

Nel linguaggio comune, quando si dice che un bambino è “bravo” ci si riferisce in sostanza al fatto che è silenzioso, o si comporta come un adulto.

E così cresciamo caricati di sovrastrutture sociali, pesi che portiamo sulle spalle da sempre e dei quali forse neppure ci accorgiamo più, fino a che non si presenta l’opportunità di posarli – ma che vergogna, ora gli altri vedranno la mia schiena sudata sotto lo zaino… meglio allora che lo tengo addosso, no no figurati, non pesa nulla!

La nostra cultura (e molte altre, pur con sfumature differenti) ci insegna a mostrare solo un lato di noi forte, capace, possibilmente felice o, in mancanza di questo, resistente – sui social ovviamente, ma non solo: queste dinamiche sono sempre esistite, Internet è semplicemente uno strumento che consente di amplificarle. Viviamo immersi in narrative che idealizzano ed eroicizzano chi “non si lamenta mai”, “tiene duro” e “va avanti con un sorriso nonostante tutto”… ma quanta solitudine si nasconde qui!

Più faccio il mio lavoro e più mi rendo conto di una cosa: la sofferenza delle persone è causata ovviamente dai problemi che le portano da me, ma è raddoppiata dalla convinzione che hanno di essere sole.

Dottoressa, ma è normale questo?

Non l’ha mai visto un caso impestato come il mio, vero?

Adesso mi farà rinchiudere in manicomio, ma devo dirle che…

Sarò fattə male io, sono stranə lo so, me lo dico anche da solə che è assurdo, ma…

Sento queste frasi quasi ad ogni seduta, soprattutto nei primi periodi di un percorso di psicoterapia, e a me suonano tutte come: sono solə? Ho bisogno di sapere che non sono solə.

No, infatti, non sei solə. Non sei stranə, né tantomeno fattə male, non è assurdo e non farò rinchiudere proprio nessuno. E’ il meglio che hai potuto fare finora con ciò che avevi, è la natura umana.

Sapere di non essere l’unicə con un determinato problema, sintomo, schema di pensiero, modello relazionale mortificante o dinamica emotiva disfunzionale è uno dei più potenti fattori di trasformazione, miglioramento e guarigione, e questo non lo dico io ma uno dei più monumentali studi scientifici mai realizzati in ambito psicologico.

Un gruppo terapeutico è il posto migliore per scoprirlo, per certi versi migliore anche di un percorso di psicoterapia individuale.

Se io come psicologa sono legalmente tenuta al segreto professionale, all’interno di un gruppo richiedo un accordo tra pari, in cui i membri si tutelano e si mettono al sicuro a vicenda impegnandosi reciprocamente a non raccontare all’esterno nulla dell’esperienza, dei contenuti o dell’identità degli altri.

Le esperienze degli altri diventano echi della tua, e viceversa. Le verità degli altri diventano testimonianze della tua mille volte negata, manipolata e silenziata, e viceversa. Le cadute degli altri dissipano il tuo senso di colpa e inadeguatezza, e viceversa. Le risorse, le bellezze interiori, le trasformazioni degli altri ti danno ispirazione, e viceversa. I successi degli altri ti danno speranza, e viceversa. Il dolore condiviso diminuisce, la gioia condivisa aumenta, e anche su questa frase non mi prendo certo il merito che spetta a San Tommaso.

Siamo per natura esseri dalle mille sfaccettature, tante parti di noi ognuna autentica: nessun posto è meglio di un gruppo per conoscerle, accoglierle, guardarle e ascoltarle tutte, anche quelle tenute finora a distanza, per trovare tra loro un migliore equilibrio.

“La mia riunione condominiale interiore” la chiamava una paziente di cui avrò sempre un caro e grato ricordo: e quale posto migliore di un gruppo, per far dialogare il gruppo che tutti portiamo dentro?

In terapia individuale posso farti parlare di quanto sia difficile essere te stessə, seguire la tua strada e fare ciò che ami nonostante i giudizi degli altri, posso accompagnarti a cercare dentro di te le ragioni per cui ti è così difficile e le risorse per riuscirci.

In una sessione di Anima in azione posso farti raggomitolare per terra. Con la mia guida discreta, la scena si potrebbe dipanare in modo simile a questo: un paio di membri del gruppo premono con le mani, rispettosamente e col tuo consenso, per tenerti giù mentre ripetono sotto voce le frasi di critica e giudizio che senti pesare nella tua quotidianità. Un altro, in piedi su una sedia, interpreta il ruolo di tuo nonno che tuona “ai miei tempi queste baggianate non esistevano! Ai miei tempi… [inserire luogo comune mortificante a piacere]”. Un altro davanti a te mima i gesti della persona che senti di essere davvero, e che vuoi diventare. Insieme ad un altro che interpreta un amico, un antenato amorevole o anche un personaggio di fantasia, vengono ad aiutarti ad alzarti con parole di amore incondizionato. Tu, di volta in volta, come uno di quei registi che recitano nel loro stesso film, ti scambi momentaneamente di ruolo con tutti loro, dettando loro movimenti e parole e sperimentando ad ogni passaggio una parte di te. Alla fine, tornato nel tuo ruolo iniziale, con fatica ti liberi di quelli che ti schiacciavano, per mano con i tuoi aiutanti finalmente ti alzi, vai davanti a tuo nonno e gli dici “Grazie nonno, ti voglio bene e onoro la tua storia, ma non la ripeto. Non sono più i tuoi tempi, sono i miei. Questo è il mio tempo e me lo prendo.”

Alla fine della drammatizzazione tutti vi risedete in cerchio, e i tuoi compagni di gruppo condividono con te cosa hanno provato partecipando o osservando il tuo gioco: ne ricavi vicinanza, incoraggiamento, senso di comprensione, nutrimento per lo spirito. Io vigilo affinché questi rimandi non siano mai giudicanti o direttivi.

A questa dimensione, a questa potenza e a molto altro si può accedere, superato lo scoglio dell’imbarazzo di fronte al gruppo.

Jacob Levi Moreno, l’ideatore del metodo, inguaribile ottimista, credeva che l’incontro autentico tra le persone potesse bastare per risolvere ogni problema del mondo. Io non ambisco a tanto, ma un pozzo di acqua fresca nel “deserto di portachiusa” come lo cantava Sergio Berardo, quello posso offrirlo, è in una stanza del mio studio in via Garibaldi 30 a Candelo.

A proposito, per creare l’accordo di segretezza reciproca nel gruppo uso un piccolo rito, rappresentato nella foto qui sopra. Sai come si chiama? Il pozzo.

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